Libia, scelte Italia ostaggio dell’emergenza profughi


Dall’inizio degli scontri a Tripoli l’Oms ha dichiarato che ci sono oltre 400 morti e 2mila feriti. L’Italia storicamente ha un rapporto forte con la Libia, anche se nell’ultimo periodo la Francia ha tentato di sostituirla come sta avvenendo ora che Macron ha ribadito la sua fiducia al presidente del Governo di Accordo Nazionale libico, Fayez al-Serraj. Come Inforos abbiamo chiesto la sua opinione alla corrispondente italiana di Notizie Geopolitiche ed autrice del sito di approfondimento Speciale Libia, Vanessa Tomassini, di stanza a Tunisi ma che è andata al fronte a sud di Tripoli fino al 21 aprile e ora si trova a Bengasi.

Qual è l’attuale situazione in Libia?

Ora sono tornata in Tunisia. Fino al 21 aprile però ero in Libia e la situazione che ho lasciato è veramente terribile dal punto di vista umanitario. Almeno 50mila persone hanno dovuto abbandonare le proprie case nelle aree di conflitto, centinaia di feriti sono stati soccorsi dalla Mezzaluna Rossa libica e dai mezzi di emergenza che hanno allestito almeno 7 punti di primo soccorso nelle aree interessate da pesantissimi scontri, in e intorno a Tripoli, tra l’autoproclamato Libyan National Army (LNA) e le forze affiliate al Governo di Accordo Nazionale libico con base a Tripoli.

Come è vissuta l’Italia e la posizione espressa dal suo Governo dai libici?

L’Italia appoggia e supporta dalla sua formazione il Governo di accordo nazionale libico rappresentato dal premier Fayez al-Serraj, in quanto riconosciuto dalle Nazioni Unite. Tuttavia, la comunità internazionale, e l’Italia in particolare, sembra stiano assistendo in modo neutrale agli eventi, non parteggiando per nessuna delle fazioni belligeranti. L’Italia a partire dalla conferenza di Palermo ha adottato un atteggiamento di inclusività, dimostrando una apertura anche nei confronti del maresciallo Khalīfa Belqāsim Ḥaftar che ad oggi controlla l’intera regione orientale e anche quella meridionale, dopo le operazioni antiterrorismo lanciate agli inizi di febbraio nel Fezzan. Si tratta di una apertura di buon senso considerando che le truppe di Haftar hanno ricevuto una calorosa occoglienza nelle principali città del sud, come a Sabha, Ghat, Awbari e più recentemente entrando in Tripolitania a Gharian, Tarhouna ed Aziziya. Anche in quelle città dove Haftar non riesce ancora a sfondare per via della coalizione di gruppi armati provenienti da Misurata, Zintan e Zawiya, la formazione di un esercito unificato e la riattivazione degli apparati di sicurezza viene vissuta come una priorità dalla maggior parte dei libici. L’Italia, giustamente utilizza cautela.

L’Italia nelle decisioni riguardanti quest’area è ostaggio della paura di una nuova ondata di profughi?

Assolutamente sì, l’Italia è l’unico Paese ad aver riaperto una sede diplomatica nel paese a gennaio 2017 ed ovviamente sa a quali rischi sta andando incontro. Durante la sua visita a Roma, il premier al-Serraj ha fatto presente al presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, che 800mila migranti sarebbero pronti a partire e tra questi potrebbero infiltrarsi pericolosi jihadisti, arrivati in Libia dopo la caduta del sedicente Stato Islamico in Siria e in Iraq. Le milizie affiliate al Governo di Accordo Nazionale che gestiscono i centri di detenzione utilizzano il fattore migranti per ricattare i Governi in cerca di sostegno. A meno di 24 ore del viaggio del premier libico in Europa, tanto per fare un esempio, abbiamo assistito ad un repentino e inspiegabile aumento delle partenze dalla città occidentale di Zuara.  È evidente che l’Italia si barcamena in scelte che la proteggano da una nuova emergenza umanitaria per evitare quanto avvenuto negli scorsi anni.

Si tratta di una situazione difficile visto che anche il popolo libico non pare avere una idea chiara su chi debba prevalere.

Come sempre avviene quando in uno Stato da anni sono in corso guerre civili la popolazione libica è esausta. Sono otto anni che vive in uno stato assoluto di corruzione, violenze, mancanza di sicurezza. Ho registrato molte testimonianze di città dove le truppe presenti hanno letteralmente aperto le porte ai soldati di Haftar. È chiaro che la disperazione porta a vedere come un liberatore chiunque abbia una visione e dimostri di essere interessato ai problemi dei libici. Serraj, nonostante il quasi totale supporto internazionale, i continui rimescoli di Governo e le sostituzioni di figure chiave nell’apparato militare, non è riuscito nel corso dei 4 anni dal suo insediamento, a fare passi concreti verso il raggiungimento di una stabilità. Questo conferma perché le milizie al fronte che si sono coalizzate siano più contro Haftar che pro-Serraj. Il fatto che le milizie affiliate al Governo di Accordo Nazionale continuino a rifiutare qualsiasi accordo tra il premier ed il maresciallo rappresenta una delle motivazioni che hanno portato Haftar a lanciare l’offensiva su Tripoli. In molti credono inoltre che l’ingresso dell’LNA nella regione occidentale facesse parte degli accordi raggiunti lo scorso 28 febbraio ad Abu Dhabi, ciò potrebbe spiegare l’immobilità della comunità internazionale che non si spinge oltre alla richiesta di un cessate il fuoco.

L’Italia voleva riaprire il consolato a Bengasi, però ha fatto marcia indietro. 

È stata costretta perché la mossa avrebbe destabilizzato ulteriormente la situazione e sarebbe stata vista come una sorta di tradimento dagli interlocutori a Tripoli. Sebbene la riapertura di un consolato in Cirenaica che offra servizi ai cittadini è attesa impazientemente, farlo mentre si combatte a Tripoli sarebbe potuto essere male interpretato.

I libici come percepiscono la presenza italiana nell’area? 

I libici vedono da sempre di cattivo occhio gli interventi esterni. La maggior parte dei libici che ho incontrato sono contrari alla qualsiasi presenza di soldati esteri e la vivono con sospetto, anche per via di una strumentalizzazione che questa subisce sui social network attraverso la diffusione di notizie false e fotomontaggi. D’altra parte, i libici si interrogano dove finiscano gli aiuti decantati dall’Italia. Prendiamo ad esempio i 3milioni di euro che l’Italia ha stanziato nel 2017 per risolvere il problema dello smaltimento della spazzatura e per rendere Tripoli più pulita. Ebbene io ci sono stata e l’emergenza rifiuti è altissima. Sia le strade del centro e ancor di più quelle periferiche presentano cumuli di spazzatura. È evidente che qualcuno non ha utilizzato quei soldi per il fine stabilito e quindi i libici lo percepiscono come una presa in giro. Mi capita spesso di sentir dire da loro che gli italiani si dicono a parole neutrali, ma che in realtà hanno troppi interessi in palio in Tripolitania, fatto difficile da smentire visto che è presente nel paese con l’Ambasciata a Tripoli ed un ospedale da campo a Misurata, recentemente accusato dal portavoce dell’LNA di aver curato dei terroristi. Proprio questo legame con Misurata pone l’Italia in una posizione ambigua, soprattutto dopo lo scandalo del pilota mercenario catturato dalle truppe di Haftar dopo l’abbattimento di un Mirage F1 nella regione di al-Hira, a nord di Gharian, appartenente all’Air College di Misurata. Tutto ciò va ad ingenerare il dubbio che si stia prendendo parte al conflitto, magari con forniture militari.

Gli italiani d’altra parte hanno interessi economici in Libia. Si pensi ad Eni.

Il Governo di Accordo Libico ha minacciato Total e altre compagnie europee. Ma d’altra parte, come evidenziato dall’UNHCR le milizie stanno utilizzando anche i centri di detenzione e di accoglienza per nascondere equipaggiamenti e strumentazione militare, rendendoli un target e mettendo in grave pericolo la vita di chi è all’interno. Ancora una volta i profughi vengono utilizzati come una sorta di scudo umano. Insomma utilizzano ciò che conta per l’Occidente per trarne vantaggio. È certo che Eni costituisca un elemento centrale per le decisioni dell’Italia, ma non è l’unico: la gestione dei profughi in questo momento è ancora più sentito. Peraltro da tempo i maggiori impianti petroliferi nella Mezzaluna libica e nel Fezzan sono controllati da gruppi affiliati ad Haftar, mentre le entrate vengono gestite dalla Banca Centrale libica a Tripoli, identificata dalle risoluzioni delle Nazioni Unite come unico ente legittimo.

Si parla di proteste contro i francesi. Ho assistito ad alcune dimostrazioni contro l’intervento francese. In piazza Algeria il venerdì c’era una ventina di dimostranti. In Piazza dei Martiri, un tempo Green Square, si saranno raccolte un centinaio di persone. Una partecipazione esigua se si pensa che Tripoli conta oltre 1 milione e 150mila abitanti. La gente del posto, commentando le dimostrazioni, mi diceva: se fossimo in una vera democrazia e permettessero ai sostenitori dell’esercito di scendere in piazza saremmo molti di più. Ad ogni modo nessuna dimostrazione va ridicolizzata o sottovalutata, in passato ci sono state dimostrazioni anti-italiane che dimostrano appunto l’insofferenza verso le interferenze straniere. C’è il sentimento che la Libia sia terreno di battaglia tra diversi attori regionali per i propri interessi a discapito del popolo libico.

Un cittadino libico le ha detto che le truppe di Haftar sono più attente alla popolazione. 

Il maresciallo come detto gode di popolarità maggiore. Non crediamo alla difesa della democrazia. Oggi in Libia la libertà è una chimera, così come lo stato di diritto. La democrazia non può essere importata ed è un processo lungo e complesso che deve passare attraverso l’educazione e la cultura del rispetto del prossimo e della diversità. Reporters Sans Frontiere nel suo rapporto annuale 2018 denunciava la grave mancanza di libertà di informazione in Libia, dove giornalisti ed operatori media sono ostaggio di milizie e gruppi armati. La nuova escalation di violenza ha sicuramente peggiorato la situazione. Sebbene non abbia ricevuto minacce dirette, mentre ero in Libia la tensione e i meccanismi della propaganda messa in atto dall’Ufficio media stranieri del Ministero degli Esteri era tangibile. Alcuni giornalisti sono stati trattenuti nelle stazioni di polizia per oltre 24 ore senza alcun motivo. I gruppi affiliati al Ministero dell’Interno del Governo di Accordo Nazionale controllavano il telefono ai passanti e se trovavano materiale pro-Haftar, si rischiava di essere messi in galera. La Missione di Sostegno delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL) ha denunciato un aumento dei casi di arresto e sparizioni forzate per ideologia politica. Un pilota della compagnia aerea nazionale è stato sequestrato, ed anche due giornalisti del canale Libya al-Ahrar risultano al momento scomparsi. Le sedi dei canali considerati pro-Haftar sono state devastate. Anche su internet è in corso una cyber war con pagine false e account fasulli ed un flusso di informazioni totalmente polarizzato. Si pensi che ad una settimana dall’inizio del conflitto a Tripoli, sui social networks si parlava già di caos e panico tra i civili, mentre in realtà il conflitto era e resta al momento circoscritto ad alcune aree. Non crediamo a tutto quello che si racconta, se non possiamo accettare la linea di un esercito che entra a Tripoli per liberarla dal terrorismo e dalle milizie, allo stesso modo non possiamo accettare di considerare Haftar un tiranno aggressore poiché altrettanto dovremmo considerare Misurata, impegnata in bombardamenti su città libiche che hanno espresso chiaramente il loro sostegno all’esercito orientale, come nel caso di Gharian, Tarhouna e Souq al-Qamis.

C’è un problema di Terrorismo e Isis in Libia? Alcuni dicono che non è vero. Ci sono testimonianze che hai riportato nei tuoi reportage.

Assolutamente sì. Va detto che al momento a sud di Tripoli la guerra è in corso su 6 o più assi. Ad Aziziya un residente ha dichiarato di non aver visto estremisti, ma solo ragazzini provenienti da Tripoli e Zintan. Ad Ain Zara, invece, e sul fronte dell’aeroporto Internazionale, alcuni membri delle milizie impegnate contro Haftar hanno dichiarato di essere preoccupati e di rifiutarsi di combattere al fianco di esponenti dell’ormai disciolta Ansar al-Sharia, la cui presenza a Tripoli è confermata anche dalle liste sanzionatorie delle Nazioni Unite. Ansar al-Sharia è una delle organizzazioni terroristiche collegate ad Al-Qaeda. Tra le file delle forze pro-Serraj si sono aggiunti probabilmente volontariamente estremisti del calibro di Salah Badi, misuratino a capo della coalizione islamista Libya Dawn responsabile per la distruzione dell’aeroporto internazionale nel 2014 ed inserito nella lista nera dell’Onu per la sua partecipazione alle violenze tra i gruppi armati a sud di Tripoli il 27 agosto scorso. Sono stati gli stessi estremisti ed alcuni ricercati per contrabbando di petrolio ed esseri umani a caricare i loro video in rete nel momento in cui si univano alla battaglia contro colui che descrivono come un nuovo dittatore, ma che in realtà rappresenta un grave pericolo per i loro interessi.

Di Marco Fontana – Pubblicato da Inforos.ru

La corrispondente Vanessa Tommasini in Libia