Il Russiagate è scoppiato come una bolla di sapone tra le mani di chi l’aveva costruito ad arte per indebolire l’avversario, ma la sua fine pare non aver insegnato nulla né ai “democratici” di tutto il mondo né ai giornalisti mainstream da loro ammaestrati. Lo scandalo apparecchiato su Savoini e D’Amico, usati come veicoli di un presunto finanziamento russo alla Lega, sembra proprio l’esatta replica delle forche caudine attraverso cui hanno fatto passare Donald Trump.
Le assonanze sono tante, troppe perché non si senta distintamente la puzza di bruciato. Negli USA c’era chi, non avendo digerito l’inaspettata vittoria del magnate newyorkese, voleva affossarlo o almeno depotenziarlo. In Italia c’è Matteo Salvini, colpevole di due peccati gravissimi: aver sonoramente sconfitto alle ultime elezioni europee sia l’alleato di governo sia l’opposizione, e tenere in considerazione la Russia come interlocutore dell’Italia. La Giustizia si è messa in moto e farà la sua parte: accerterà eventuali ipotesi di reato, ma nel fuoco di fila che sta subendo Salvini è impossibile non riconoscere un preciso disegno per indebolirlo. Lo stesso era accaduto a Berlusconi, quando da Presidente del Consiglio nel 2011 aveva osato, almeno in un primo momento, dire “no” ai progetti egemonici di Francia e Germania sulla Libia. Ed era nota la sua amicizia con il presidente Putin.
Così, quando i personaggi diventano scomodi, parte qualche speculazione finanziaria sui titoli di Stato, tanto per dare un avviso, ma se non basta, allora si costruisce un fantasioso dossieraggio che il più delle volte finisce in un nulla, ma che intanto rovina l’opera e la reputazione degli accusati. Si pensi al caso del viceministro dell’Economia, il leghista Massimo Garavaglia, che quando era assessore lombardo alle Attività Produttive, fu imputato per turbativa d’asta per il servizio di trasporto di persone dializzate. Recentemente è stato prosciolto, ma per ben 4 anni ha dovuto subire gli attacchi di quelli che si aggrappano alle inchieste giudiziarie per demolire gli avversari politici.

Oppure si può citare il caso dell’ex capo della Protezione Civile Guido Bertolaso, uomo molto vicino al premier Berlusconi (tanto da essere proposto a candidato sindaco di Roma proprio da Silvio): nel 2012 fu coinvolto accusato di aver preso tangenti per pilotare gli appalti previsti per il G8 di Genova. Ad anni di distanza, Bertolaso è stato assolto su tutta la linea. È difficile non vedere un legame tra quella inchiesta e le parole che Bertolaso pronunciò un anno prima contro l’allora segretario di Stato americano Hillary Clinton. Bertolaso aveva criticato la gestione degli aiuti ad Haiti, sottolineando come l’organizzazione approntata dagli USA fosse “patetica” e con “troppi show per la TV”, oltre che gestita con troppi militari.
I personaggi più vicini agli avversari del momento vengono perciò attenzionati al fine indebolire quel politico che disturba o intralcia i progetti dell’élite euroatlantica: è una constatazione ormai fin troppo ovvia. Gli esempi sarebbero ancora tanti, ma i giornalisti di regime dimenticano poi di riabilitare quelli che avevano messo alla berlina per attaccare gli avversari del proprio editore. Raccontare la verità è un dovere deontologico di chi esercita il giornalismo, ma la correttezza professionale non interessa a chi scrive al servizio di certe testate nazionali e internazionali.
Così, la russofobia imperversa nei loro articoli, trasuda da ogni parola, riescono a ficcarla pure quando non c’entra nulla. Anche qui ci sarebbero tanti esempi, alcuni ridicoli e alcuni inquietanti, ma è emblematico quanto successo in questi giorni. Su Wired è uscito un pezzo sull’applicazione più alla moda del momento: è FaceApp, che permette di invecchiare l’immagine del proprio volto. E i soliti russi brutti e cattivi dove stanno? Secondo Wired, dietro la popolare app c’è una società russa con server negli USA e poche informazioni su come userà i dati. Ed ecco servita l’ennesima scorpacciata di pregiudizi sulla Russia. Per non farsi mancare nulla, in bella evidenza sotto il titolo c’è un’immagine di Putin. Qualche altro giornale ha poi fatto qualche specifiazione, per esempio ha evidenziato proprio il fatto che i server di FaceApp siano negli Stati Uniti, ma il mainstream in blocco ha approfittato anche di questo giochino da social per ingigantire ancora di più lo pseudo-scandalo (o “Moscopoli” come qualcuno l’ha prontamente ribattezzato) dell’hotel Metropol e perciò colpire indirettamente il vicepremier Salvini.
La guerra mondiale dell’informazione della disinformazione vede spesso il ribaltamento dei ruoli: gli accusati in realtà sono le vittime, mentre quelli che si autodefiniscono vittime sono i veri carnefici. L’opinione pubblica è sempre più destabilizzata e le vengono dati punti di riferimento che poi si rivelano marci alle fondamenta.
Pubblicato da Inforos.ru