La dolorosa esperienza del Covid 19 ha precipitato il mondo intero in uno stato di desolazione e smarrimento. Alle granitiche certezze, figlie di una globalizzazione che ha indubbiamente portato tanti benefici all’umanità nei più svariati settori, si è sostituito il sentimento condiviso, al pari della pandemia (pan-demos, tutto popolo), di vulnerabilità. L’istantanea delle strade vuote, della città fantasma, del distanziamento fisico e delle limitazioni ai contatti sociali hanno accresciuto le nostre paure. Situazioni di isolamento hanno in taluni casi portato a disperazione, rabbia e abusi, mettendo a nudo la parte più oscura dell’animo umano. Ma quelle dure lezioni di fragilità e finitezza ci conducono, come ha ben evidenziato dalla Pontificia Accademia della Vita nella sua nota L’Humana communitas nell’era della pandemia. Riflessioni inattuali sulla rinascita della vita, «alla soglia di una nuova visione: promuovono un ethos di vita che richiede un impegno dell’intelligenza e il coraggio di una conversione morale. Imparare una lezione significa farsi umili, significa cambiare, cercando risorse di senso fino ad allora non sfruttate, forse sconfessate». Ecco, bisogna farsi proprio “umili” per ricercare il bene comune e approdare ad un significato nuovo di solidarietà, da distinguere dalle forme di assistenzialismo osannate da parte dei decisori pubblici. Su questi temi la giornalista Marina Pupella, per StrumentiPolitici.it ha interrogato Enrico Costa, imprenditore e presidente del Ceis Genova, il Centro di solidarietà che dedica la propria missione alle persone più fragili della società, vittime di dipendenze, prive di casa o lavoro e in fuga dal proprio paese.
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