UE e quelle regole che pesano solo per alcuni. Ieri sberleffo della Commissione a 5 ministri


Il tiro al bersaglio contro i populisiti che inneggiano alla disintegrazione dell’Unione Europea è all’ordine del giorno. Certo è, che più si scava nell’intricato mondo delle norme comunitarie, più si scopre che la Commissione e il Parlamento Europeo non fanno nulla per non fornire validi argomenti ai propri avversari.

Si guardi ad esempio allo studio reso pubblico proprio in queste ore dalla Cgia di Mestre sul rispetto dei parametri di Maastricht. Meno di un Paese su due li rispetta. Nonostante questo dato la lente d’ingrandimento dei vertici di Bruxelles viene puntata sempre e soltanto su alcuni, evitando di scomodare i Paesi più forti sul tavolo delle trattative, Stati peraltro che – se si scava più a fondo – spesso non sono neppure tra i più grandi contribuenti del bilancio Ue.

Secondo l’elaborazione effettuata dall’Ufficio Studi della CGIA, tra i 28 Paesi che compongono l’Unione europea poco più di 1 su 2 (per la precisione 16) l’anno scorso non ha rispettato le disposizioni previste dai 2 principali criteri di convergenza sanciti dagli accordi di Maastricht (1992), ribaditi a Lisbona (2007) e sanciti con il Fiscal compact (2012). Vale a dire il rapporto deficit/Pil sotto il 3 per cento e il rapporto debito/Pil non superiore al 60 per cento.

Ad eccezione della Polonia, tra i 12 paesi virtuosi è importante segnalare che si tratta in massima parte di realtà di piccola dimensione: tra queste scorgiamo Malta, Slovacchia, Lituania, Lettonia, Lussemburgo, Bulgaria ed Estonia che fanno parte dell’Area euro. Si pensi che questi 12 paesi rappresentano appena il 12 per cento del Pil dell’intera Unione europea.

Tra il 2009 e il 2016, ad esempio, solo 3 Paesi in Ue (Svezia, Estonia e Lussemburgo) non hanno mai “sforato” la soglia del 3 per cento del rapporto deficit/Pil; mentre Spagna, Regno Unito e Francia lo hanno fatto ben 8 volte (ovvero ogni anno); Grecia, Croazia e Portogallo 7. L’Italia, invece, lo ha fatto in 3 occasioni e in questi anni ha mantenuto un’incidenza percentuale media del disavanzo pubblico al -3,3: contro il -7,9 della Spagna, il -6,6 del Regno Unito e il -4,8 della Francia.

Carlo Calenda - Ministro dell'Industria Italia
Carlo Calenda – Ministro dell’Industria Italia

Eppure l’Italia continua a pagare più di altri Paesi i propri guai di bilancio. E proprio questa “attenzione privilegiata” é uno dei fattori che maggiormente da fastidio ai cittadini italiani. Il problema é che l’Unione Europea non intende cambiare atteggiamento. Si guardi ad esempio all’atteggiamento assunto proprio ieri da un portavoce dell’esecutivo comunitario di fronte al monito lanciato da cinque ministri europei dell’industria – Cristophe Sirugue (Francia), Matthias Machnig (Germania), Carlo Calenda (Italia), Jerzy Kwiecinski (Polonia) e Begoña Cristeto-Blanco (Spagna):

“Serve una politica industriale europea più coraggiosa che assicuri competitività alle nostre imprese, e serve un sostegno attivo della Commissione e di tutti gli Stati membri. Quest’obiettivo deve influenzare tutte le politiche pubbliche europee sulla base di alcune aree prioritarie”.

Il rappresentante della Commissione ha risposto seccato: “La Commissione Ue accoglie con favore l’input della lettera dei ministri dell’industria di Italia, Francia, Germania, Spagna e Polonia, a cui darà adeguata attenzione, ma non ritiene necessario un Piano ad hoc per il settore. Tutte le politiche Ue sono infatti già orientate a sostegno dell’industria“. Una posizione supponente incomprensibile, in particolare, di fronte alle proposte circonstaziate avanzate da 5 ministri dell’industria europei:   “In primo luogo, l’Unione europea deve realisticamente
impegnarsi a promuovere una politica commerciale equilibrata, basata sulla reciprocità e su mutui vantaggi“, e “deve anche mettere in atto misure idonee per il monitoraggio degli investimenti esteri diretti“.

“L’Europa – secondo i ministri inoltre deve – sostenere le Pmi nella trasformazione digitale e costituire il corretto quadro di riferimento. In tema di cambiamento climatico, l’Europa deve ora sviluppare ulteriormente il proprio carbon market (Ets) proteggendo realmente i settori industriali esposti ai rischi di carbon leakage, definendo nel contempo segnali di prezzo che aiutino le imprese a indirizzare la pianificazione degli investimenti nel lungo termine”.

Difficile di fronte ad atteggiamenti di chiusura dei vertici europei alle rimostranze di ben 5 esponenti di Governo che i populismi non abbiano vita facile nelle competizioni elettorali. Insomma, come si dice? Chi vuole il proprio mal…