Francamente quando penso ai film di fantascienza non posso che definirmi un po’ nerd. Faccio parte infatti, di quella che si potrebbe chiamare a pieno titolo generazione Star Wars (parlo della saga originale). Quella generazione che si emoziona se vede proiettate su grande schermo una serie di scritte a scorrimento all’inizio di una proiezione cinematografica, che vive la parola “forza” con una accezione quasi mistica e che nutre una fottuta invidia per San Diego e il suo Comic-Con.
Ecco quindi che, non appena mi siedo in sala, per vedere un film di questo genere non riesco a fare a meno di aspettarmi qualcosa di spettacolare, epico, rivoluzionario. Un lungometraggio capace insomma di alterare il mio punto di vista stupendomi grazie da un lato alla creazione di mondi paralleli e scontri titanici tra bene e male e dall’altro alla rappresentazione di popolazioni sempre nuove e alternative al genere umano.
Denis Villeneuve (che a breve rincontreremo dietro la macchina da presa in Blade Runner 2) con il suo Arrival fa tutto questo ma in punta di “ciak”. L’utilizzo degli effetti speciali è ridotto al minimo. Gli scontri tra specie diverse si articola su un alfabeto del tutto differente rispetto a qualsiasi altro film di fantascienza mai girato. La fotografia alterna momenti di puro culto del colore ad altri nel quale le tonalità sono così appena accennate da sembrare di essere scivolati in un film degli anni Trenta in bianco e nero. I dialoghi sono asciutti, essenziali: paiono più “sentenze” che non battute di una sceneggiatura di fantascienza. Eppure nonostante questo stile minimale ogni fotogramma, nelle mani del regista di Prisoners e Enemy, diventa unico e irripetibile.
L’intreccio narrativo a prima vista potrebbe sembrare banale: qualcosa di già letto e già visto mille volte. Dodici navicelle spaziali extraterresti appaiono sul Pianeta Terra senza chiarire il proprio scopo. Unica possibilità di scoprirlo una finestra che si apre – a cadenze fisse durante la giornata – e che permette di agli essere umani di entrare nei gusci e prendere contatto con i visitatori. C’è solo un piccolissimo problema purtroppo: come si comunica con qualcuno che ha un linguaggio completamente diverso dal proprio? Ecco quindi che al centro delle vicende di Arrival vi sono i tentativi delle squadre di scienziati di capire lo scopo del viaggio sul pianeta Terra degli extraterrestri. In particolare l’attenzione sarà spostata sulla linguista Louise Banks (Amy Adams) che ha subito un grave lutto nella sua vita e il fisico Ian Donnelly (Roberto Gammino), scienziato che pone la matematica al centro di tutta la sua vita. Umanesimo contro Scienza insomma. Ben presto si scoprirà non solo che entrambe devono convivere ma soprattutto che il vero alieno alberga nel genere umano più che non nei nuovi arrivati.
Arrival è candidato a 8 Oscar e ha appena vinto il premio Bafta per il miglior Sonoro. Sinceramente non so quanti riconoscimenti raccoglierà: conoscendo le abitudini di quelli dell’accademy si laveranno le mani attribuendogli qualche Oscar minore per onorare i soliti cliché del politically correct. Quello di cui sono convinto invece è che non si può non vederlo almeno una volta nella propria vita apprezzando il valore che Villeneuve da al tempo e alla capacità di comunicare nel senso più alto e lato del termine.