Il 20 aprile si è tenuto a Roma un negoziato, mediato dall’Oman, fra il rappresentante degli USA Steve Witkoff e il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi. È stato il primo di una serie a stretto giro di posta, seguito pochi giorni dopo da un incontro a Ginevra e poi da uno proprio in Oman, il cui Ministro degli Esteri ha specificato lo scopo degli sforzi comuni. Si vuole raggiungere un accordo “equo, sostenibile e vincolante” per garantire che Teheran non abbia più la tecnologia nucleare militare, ma nemmeno sia gravata dalle sanzioni che subisce da decenni. Il nucleare civile viene comunque fatto salvo.
L’obiettivo dell’amministrazione Trump è chiudere l’accordo entro 60 giorni, quindi prima dell’estate. Per farlo, Washington alterna bastone e carota: offre l’annullamento delle sanzioni che limitano l’attività economica e finanziaria, ma ammonisce sulla possibilità di effettuare attacchi contro gli impianti nucleari iraniani qualora Teheran dovesse rifiutare l’intesa.
A scanso di equivoci, Teheran vorrebbe tenersi in casa tutte le riserve di uranio, in modo da non esporre a rischio di eliminazione pure quelle destinate al nucleare civile. Gli USA invece ammettono che al massimo vengano custodite da un Paese terzo.
Ad esempio la Russia, di cui l’Iran si fiderebbe, considerato l’accordo strategico che i due Paesi hanno firmato lo scorso gennaio e considerato che USA e Iran preferirebbero tener fuori dai giochi gli enti internazionali come l’ONU. Per Mosca sarebbe l’occasione di lasciare indietro Gran Bretagna, Francia e Germania, ancora convinte di contare molto sul piano internazionale. E proprio a Mosca sono andati nei giorni scorsi sia Witkoff che Araghchi, oltre allo stesso sultano dell’Oman Haitham bin Tariq al-Said. Nei loro colloqui al Cremlino hanno discusso i progressi fatti nei negoziati USA-Iran e l’aiuto che la Russia è disposta a dare.
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